«Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» così l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Colossesi spiega il senso salvifico della sofferenza umana.
Giovanni Paolo II nell’enciclica “Salvifici Doloris” del 1984 commenta questo passo del Nuovo Testamento affermando la gioia derivante dalla comprensione del senso del patire.
Dinanzi a queste riflessioni quale significato dare alla sofferenza umana? come raccordare l’esperienza del patire con la natura benevola del creatore di ogni cosa? Quali domande accompagnano ogni percorso di sofferenza e quali sono i risvolti antropologici annessi?
È bene sottolineare alcune distinzioni fondamentali che ci guidano nella comprensione del termine.
Nelle prime battute dell’enciclica appena citata il papa distingue il concetto più complesso di sofferenza da quello di dolore.
«Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole “sofferenza” e “dolore”, la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo “duole il corpo”, mentre la sofferenza morale è “dolore dell’anima”»[1].
La sofferenza viene poi considerata nella sua profondità del tutto umana, cogliendo una natura diversa dalla sofferenza del resto del mondo animale.
«Ciò che esprimiamo con la parola “sofferenza” sembra essere particolarmente essenziale alla natura dell’uomo. […] La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso “destinato” a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso»[2].
Un approccio del tutto umano al patire è caratterizzato dalla domanda di senso anch’essa pienamente umana, anche in questo caso l’enciclica “Salvifici doloris” ci aiuta a comprenderne tale dinamica.
«Solo l’uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così come lo è un’altra, molto affine, cioè quella intorno al male»[3].
Proseguendo Giovanni Paolo II risponde a questo scomodo quesito focalizzando l’attenzione sull’amore.
«Per ritrovare il senso profondo della sofferenza […] Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l’ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con l’amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L’Amore è anche la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all’uomo nella Croce di Gesù Cristo»[4].
Quanto detto non pone il cristiano in un’ottica di indifferenza o disumana contentezza nel patire. La fede illumina il percorso di sofferenza evitando lo scoraggiamento, ragion per cui nell’enciclica “Lumen Fidei” papa Francesco lega la sofferenza illuminata dalla fede ad una delle tre virtù teologali: la speranza.
«La fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo»[5].
Nella lettera enciclica “Spe Salvi” di Benedetto XVI, la sofferenza è considerata parte integrante della vita umana che certamente necessita una lotta da parte di ciascuno, ma che mai potrà essere eliminata del tutto, consapevoli che “non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”[6]. Da qui matura quel senso di umanità in relazione nutrita anch’essa da un sentimento propriamente umano: la compassione.
«Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana»[7].
Nell’enciclica “Evangelium Vitae” già nel 1995 Giovanni Paolo II rintracciava i rischi di una società che rifiuta e censura la sofferenza.
«In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell’esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene “censurata”, respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque»[8].
La comprensione del senso della sofferenza è l’unica via per accogliere intimamente i patimenti, nonché per una ritrovata umanità nelle relazioni segnata dalla compassione, in un’ottica che trascende il corporeo e abbraccia lo spirito.
«Questo è il senso veramente soprannaturale ed insieme umano della sofferenza. È soprannaturale, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l’uomo ritrova sé stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione»[9].
[1] SD5
[2] SD2
[3] SD9
[4] SD13
[5] LF57
[6] SS37
[7] SS38
[8] EV23
[9] SD31