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Documento magisteriale: il testo fa parte dei documenti con i quali la Chiesa custodisce e tramanda il suo insegnamento fondato sul depositum fidei

25 Marzo 1995

Lettera Enciclica

«Domanderò conto … a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5): venerazione e amore per la vita di tutti

39. La vita dell’uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l’unico signore: l’uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio: «Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice: «Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo» (Gn 9, 6).

La vita e la morte dell’uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: «Egli ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana», esclama Giobbe (12, 10). «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39).

Ma questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la vita dell’uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo bambino: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Sal 131/130, 2; cf. Is 49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura casualità o di un destino cieco, ma l’esito di un disegno d’amore con il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di morte, che nascono dal peccato: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza» (Sap 1, 13-14).

40. Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell’uomo, nella sua coscienza. La domanda «Che hai fatto?» (Gn 4, 10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l’esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita — della sua vita e di quella degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.

Il comandamento relativo all’inviolabilità della vita umana risuona al centro delle «dieci parole» nell’Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce, anzitutto, l’omicidio: «Non uccidere» (Es 20, 13); «Non far morire l’innocente e il giusto» (Es 23, 7); ma proibisce anche — come viene esplicitato nell’ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione inflitta all’altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna riconoscere che nell’Antico Testamento questa sensibilità per il valore della vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto dell’inviolabilità della vita fisica e dell’integrità personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18).

41. Il comandamento del «non uccidere», incluso e approfondito in quello positivo dell’amore del prossimo, viene ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane ricco che gli chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», risponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 16.17). E cita, come primo, il «non uccidere» (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del rispetto della vita: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5, 21-22).

Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l’inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell’Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l’orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es 21, 22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell’estraneo, fino all’amare il nemico.

L’estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf. Mt 5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a «fargli del bene» (cf. Lc 6, 27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (cf. Lc 6, 34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l’amore provvidente di Dio: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35).

Così il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell’uomo ha il suo aspetto più profondo nell’esigenza di venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e della sua vita. È questo l’insegnamento che l’apostolo Paolo, facendo eco alla parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai cristiani di Roma: «Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore» (Rm 13, 9-10). 

«Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela» (Gn 1, 28): le responsabilità dell’uomo verso la vita

42. Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”«(Gn 1, 28).

Il testo biblico mette in luce l’ampiezza e la profondità della signoria che Dio dona all’uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza: «Dio dei padri e Signore di misericordia… con la tua sapienza hai formato l’uomo, perché domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con santità e giustizia» (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio dell’uomo come segno della gloria e dell’onore ricevuti dal Creatore: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare» (Sal 8, 7-9).

Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn 2, 15), l’uomo ha una specifica responsabilità sull’ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione ecologica — dalla preservazione degli «habitat» naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla «ecologia umana» propriamente detta 28 — che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni vita. In realtà, «il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di “usare e abusare”, o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di “mangiare il frutto dell’albero” (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire».29

43. Una certa partecipazione dell’uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della vita propriamente umana. È responsabilità che tocca il suo vertice nella donazione della vita mediante la generazione da parte dell’uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: «Lo stesso Dio che disse: “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2, 18) e che “creò all’inizio l’uomo maschio e femmina” (Mt 19, 4), volendo comunicare all’uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l’uomo e la donna, dicendo loro: “crescete e moltiplicatevi” (Gn 1, 28)».30

Parlando di «una certa speciale partecipazione» dell’uomo e della donna all’«opera creatrice» di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del figlio sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i coniugi che formano «una sola carne» (Gn 2, 24) ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle Famiglie, «quando dall’unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione “sulla terra”. Infatti soltanto da Dio può provenire quella “immagine e somiglianza” che è propria dell’essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione della creazione».31

È quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna, «la madre di tutti i viventi» (Gn 3, 20). Consapevole dell’intervento di Dio, Eva esclama: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gn 4, 1). Nella generazione dunque, mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio, si trasmette, grazie alla creazione dell’anima immortale,32 l’immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime l’inizio del «libro della genealogia di Adamo»: «Quando Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set» (Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti «a cooperare con l’amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia».33 In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava il «matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni terreni» come «generatore dell’umanità, artefice di immagini di Dio».34

Così l’uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un’opera divina: mediante l’atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.

Ma, al di là della missione specifica dei genitori, il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati… Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25, 31-46). 

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