Cappellani, operatori, volontari: l’Ufficio Cei per la Pastorale della salute incontra a Roma chi è impegnato in tutta Italia nel mondo della sanità e della malattia. Con un tema prioritario per tutti

L'intervento del cardinale Zuppi al convegno nazionale di Pastorale della salute a Roma

L’intervento del cardinale Zuppi al convegno nazionale di Pastorale della salute a Roma – Foto Alessio Romenzi

Aiutare a rendere la malattia un’“esperienza sana”, un percorso in cui non si ceda alla rabbia e alla disperazione, ma «la sofferenza sia segno di speranza essa stessa». Essere insomma i «volontari della sofferenza che rappresentano quella madre che è la Chiesa». Non a caso usa più volte l’espressione di Chiesa come ospedale da campo l’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, intervenendo in video alla giornata di apertura del 26° Convegno nazionale di pastorale della salute che continuerà fino a domani a Roma. Un viaggio attraverso quattro basiliche papali (Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, San Pietro e San Paolo fuori le Mura) per imparare attraverso l’arte e la bellezza ad essere “Con i sofferenti pellegrini di speranza”. Questo il titolo scelto per la tre giorni di approfondimento organizzata dall’Ufficio per la Pastorale della salute della Cei. Si parte con l’accoglienza che apre alla speranza, e accogliere significa innanzitutto farsi compagni di strada dei sofferenti, stare accanto nella malattia, dimostrare che c’è un “noi” che rende più sopportabile la malattia.

 

Foto Alessio Romenzi

La sfida della sofferenza è «enorme ed è accentuata dalla solitudine degli uomini e dalla mancanza di relazioni. Voi siete quelli che stanno dentro l’ospedale da campo che è la Chiesa – sottolinea il presidente della Cei – e ce ne accorgiamo, di questa sofferenza, solo se abbiamo gli occhi della compassione e della misericordia. La solitudine infatti è ciò che rende la sofferenza sempre più insopportabile, ecco che così la vicinanza alle persone che voi rappresentate è la prima lotta all’eutanasia e allo scarto».

La solitudine perciò amplifica la sofferenza e «tutto questo aiuta la mentalità dell’eutanasia. Non è che dobbiamo aspettare i provvedimenti – prosegue il porporato –, è una questione che ci sfida non da oggi, non dobbiamo lasciare indietro nessuno, perché la presenza rende preziosa la vita». Il dare speranza ai sofferenti, il seguito del suo ragionamento, «deve coinvolgere tutta la comunità. Alle volte capiamo di più la luce quando siamo nel buio e capiamo la consolazione quando siamo travolti dalla malattia». Ma parlando degli operatori della pastorale della salute, Zuppi tocca il tema della professionalità. «C’è tanto bisogno di una formazione migliore – dice ancora – che permetta una vicinanza che non sia solo un po’ sentimentale, ma che rappresenti una fedeltà e una comprensione profonda delle situazioni. La vera professionalità necessaria è la compassione, la consolazione, è l’Amore».

 

Foto Alessio Romenzi

La prima giornata di lavori dedicata all’accoglienza è incentrata sui simboli contenuti nella Basilica di Santa Maria Maggiore, come la reliquia della Sacra Culla e l’icona della Madonna Salus Popoli Romani. A parlarne è il cardinale Rolandas Makrickas, arciprete della Basilica in un messaggio, ricordando come «la culla è il simbolo dell’accoglienza tenace della vita, vita che è sacra e intangibile, proprio perché intesa come dono che schiude la porta alla speranza. La speranza per farsi concreta perciò ha bisogno di abitare dentro di noi, di farsi carne, è speranza incarnata, accogliere la speranza significa diventare speranza con il nostro sì». Spesso nella società occidentale il dolore è da nascondere, si tende a rimuoverlo e nel dominio della cultura anestetica, spiega il biblista Luca Moscatelli, «la speranza nasce e rinasce nei momenti di crisi. La speranza non è la stessa cosa dell’ottimismo. Quindi non è la speranza che tutto andrà bene, ma la certezza che quella sofferenza ha un senso al di là di come andrà a finire». La speranza è tenuta viva da una lettura attenta delle Sacre Scritture che «sono speranza e consolazione».

 

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Poco prima, guidando la preghiera iniziale, era stato proprio il presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, l’arcivescovo di Gorizia Carlo Maria Redaelli, a sottolineare come «arrivare alla speranza non è facile, perché si passa attraverso tante tribolazioni, ma poi si arriva alla speranza che è Amore trasfigurato e la speranza è sostenuta da questo Amore». Ecco allora che ricordare le cose belle aiuta a coltivare la speranza e a non cadere nello sconforto, ed ecco perché occorre coltivare la speranza soprattutto nella sofferenza. Il punto sta tutto «nell’imparare dalla sofferenza, il voler imparare fino alla fine che vedo in tante situazioni di malattia – è la conclusione del discorso di fra Francesco Filoni, ministro provinciale di Umbria e Sardegna – che vuol dire conoscere il senso di quella sofferenza ma non solo. C’è tanta bellezza in questa riconciliazione nella sofferenza, che vuol dire pensare a quello che ho sentito e agire in base a quello che ho pensato e non a quello che ho sentito. Così si diventa consapevoli».

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