«Il Buon Samaritano […] “non solo si fa prossimo, ma si fa carico di quell’uomo che vede mezzo morto sul ciglio della strada”. Investe su di lui, non soltanto i soldi che ha, ma anche quelli che non ha e che spera di guadagnare a Gerico, promettendo che pagherà al suo ritorno[1]».
La lettera Samaritanus Bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede sottolinea come il farsi prossimo dell’altro sia un’esperienza di coinvolgimento intimo e totale. Nell’investimento economico ed umano del Buon Samaritano vi è il rischio di colui che si mette in gioco per sostenere l’altro che soffre.
«La cura della vita […] non è riducibile alla capacità di guarire l’ammalato, essendo il suo orizzonte antropologico e morale più ampio: anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico […], psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato. La medicina, infatti, che si serve di molte scienze, possiede anche una importante dimensione di “arte terapeutica” che implica una relazione stretta tra paziente, operatori sanitari, familiari e membri delle varie comunità di appartenenza del malato: arte terapeutica, atti clinici e cura sono inscindibilmente uniti nella pratica medica»[2].
L’arte terapeutica si nutre di relazioni umane, e la relazione è fatta in primo luogo di accoglienza. Da qui nasce la vocazione per ciascun individuo, chiamato a stare accanto all’ammalato, di porsi in un atteggiamento contemplativo.
«A tal fine, soprattutto nelle strutture ospedaliere e assistenziali ispirate ai valori cristiani, è più che mai necessario fare uno sforzo, anche spirituale, per lasciare spazio ad una relazione costruita a partire dal riconoscimento della fragilità e vulnerabilità della persona malata. […] Si tratta, in tal senso, di avere uno sguardo contemplativo, che sa cogliere nell’esistenza propria e altrui un prodigio unico ed irripetibile, ricevuto e accolto come un dono. È lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà della vita, ma sa accoglierla così com’è, con le sue fatiche e le sue sofferenze, cercando di riconoscere nella malattia un senso dal quale si lascia interpellare e “guidare”, con la fiducia di chi si abbandona al Signore della vita che in esso si manifesta»[3].
Nell’accompagnamento ciascuno è pienamente coinvolto, con la propria storia, con le proprie ferite e con tutto quanto abbia contribuito a formare uno sguardo umano sulla sofferenza altrui.
«Ogni malato ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore “sa” che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui. Per questo, volgere lo sguardo a Cristo significa sapere di potersi appellare a chi ha provato nella sua carne il dolore delle frustate e dei chiodi, la derisione dei flagellatori, l’abbandono e il tradimento degli amici più cari»[4].
Nel discorso ai partecipanti al congresso mondiale dei medici cattolici del 1982 Giovanni Paolo II esprime quanto appena detto sotto forma di un invito concreto rivolto ai curanti. Costoro possono infatti trovare nella fede la disposizione interiore che permette di colmare di autenticità quella dimensione di arte terapeutica in cui la medicina si compie.
«L’esperienza insegna che l’uomo, bisognoso di assistenza […] svela esigenze che vanno oltre la patologia organica in atto. Dal medico egli non s’attende soltanto una cura adeguata […] ma il sostegno umano di un fratello, che sappia partecipargli una visione della vita, nella quale trovi senso anche il mistero della sofferenza e della morte. E dove potrebbe essere attinta, se non nella fede, tale pacificante risposta agli interrogativi supremi dell’esistenza?»[5]
In questa esigenza si collocano quanti, attraverso il loro operato, cooperano nell’unitaria azione pastorale della Chiesa accanto alla sofferenza.
«Non pochi aspetti di tale pastorale si incontrano con i problemi e i compiti del servizio alla vita compiuto dalla medicina. Vi è una necessaria interazione tra esercizio della professione medica ed azione pastorale, poiché unico oggetto di entrambe è l’uomo, colto nella sua dignità di figlio di Dio, di fratello bisognoso al pari di noi di aiuto e di conforto»[6].
[1] Samaritanus Bonus
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Giovanni Paolo II, discorso ai partecipanti al congresso mondiale dei medici cattolici, 6
[6] Ibid.