di Francesco Ognibene
Un suicidio non è mai una buona notizia. Anzi. La coscienza collettiva è ancora persuasa che davanti alla volontà di farla finita si debba sventare un gesto tragico. Forse è bene ripeterselo, perché quando si ragiona di suicidio assistito questa certezza che resiste dentro di noi come un istinto antico sembra svanire per lasciare il posto a una sorta di rassegnazione, “se proprio lo vuole fare perché dovrei interferire?”. Già: perché?
Abbiamo più di un motivo per soccorrere una persona a tal punto disperata da chiedere di morire, e non perché ci manca la percezione di quanto valga la sua libertà. Su queste colonne pochi giorni fa una luminare della neurologia come Matilde Leonardi ci avvertiva che la decisione di suicidarsi presa da un paziente affetto da una grave malattia degenerativa ben difficilmente si può dire “libera”, per effetto di una compromissione cognitiva causata dalla stessa patologia. E la recente Giornata mondiale dedicata ai suicidi ci ha ricordato la crescente propensione dei giovani a rinunciare a vivere, mostrandoci una volta in più che chi vuole suicidarsi è sopraffatto da un’ombra che grava sulla sua persona sino a mostrargli la propria autodistruzione come un sollievo. Possiamo dirlo veramente “libero”?
Non è ozioso soffermarsi su queste considerazioni, che il confronto sulla depenalizzazione dell’assistenza al suicidio rimuove come se il centro della questione fosse solo l’affermazione di un “diritto”, l’estensione della “libertà”. Se non guardiamo negli occhi il suicidio come la tragedia che è finiamo per girare la testa per non vedere la realtà.
E la realtà è la sofferenza che ha la meglio sulla volontà di vivere di troppi nostri concittadini, che per i motivi più diversi – abbandono terapeutico e assistenziale, solitudine, malattie irreversibili, dolore come compagno di giornate svuotate di tutto… – preferiscono morire. L’interrogativo che, con tutta onestà, occorre porsi allora è questo: vogliamo che questa domanda di morte sia assecondata arrendendosi alla prospettiva del suicidio come possibilità tra le altre di concludere la vita, ed esigendo dallo Stato che affianchi alle terapie per chi chiede vita l’iniezione letale come “prestazione sanitaria”? Oppure restiamo saldi nella percezione del suicidio anche di una sola persona come sconfitta collettiva ed esigiamo da quello stesso Stato – ma anche dalla comunità, e da noi – che si faccia tutto quel che serve perché a quella iniezione non si arrivi mai?
Siamo a un bivio, che è della nostra civiltà prima che della politica. La legge della Regione Sardegna, che martedì si è aggiunta a quella della To-scana, sta a dirci che la spinta culturale per considerare il suicidio come un diritto, ed erogarlo come un dovere dello Stato, non si ferma se non rilanciando l’alleanza sociale, civile e istituzionale per rendersi tutti consapevoli di una disperazione crescente e di un dolore non lenito che chiedono di essere visti, ascoltati e soccorsi. È una delle priorità per un Paese che invecchia, che vede cronicizzarsi malattie incurabili fino a ieri e che davanti al patire di tanti deve assumersi la responsabilità di tornare a vedere la vita come un bene indisponibile, e la «cura» come uno dei «pilastri» – insieme al «dono» e alla «fiducia» – «di un’economia che non uccide, ma intensifica e allarga la partecipazione alla vita». L’ha appena detto papa Leone proponendo la risposta di «una estesa “alleanza dell’umano”» per arginare le derive disumanizzanti che spingono – è il caso di cui parliamo – a scambiare la morte volontaria per una buona notizia perché espressione di piena libertà e addirittura di dignità compiuta. La realtà alla rovescia.
Il ripetersi dei colpi di mano di consigli regionali che, con maggioranze d’occasione, si arrogano un potere di regolamentare la vita e la morte che è esclusiva dello Stato impone di mettere a fuoco ciò che conta, prima delle formule per uscire da una strettoia giuridica. E se la Corte costituzionale è attesa a una sentenza che dovrebbe cancellare l’inaudita prospettiva di venti leggi regionali sul suicidio assistito, resta il dovere della politica di ascoltare quel dolore e dargli risposta, con tutta la libertà dell’organo di rappresentanza democratica. Perché le leggi al Parlamento non le “detta” nessuno, né si può dimenticare che in Italia non c’è alcun vuoto legislativo: abbiamo le leggi sulle cure palliative (38/2010, colpevolmente inapplicata) e sulle disposizioni anticipate di trattamento (219/2017, della quale si è scordato il cuore operativo, la “pianificazione condivisa delle cure”, che consolida l’alleanza tra un paziente e il suo medico). Queste considerazioni però non devono fungere da alibi per la “non decisione” e per una melina che davanti a chi soffre suonerebbe offensiva. Se regole nazionali vanno trovate per fermare la deriva della morte “fai da te”, che abbiano almeno tre caratteri. Siano largamente condivise: se non ci riconosciamo tutti nella tutela della vita umana fragile su cosa mai potremo convenire? Affermino poi che la vita ha piena dignità sempre, non va mai soppressa, e che qualsiasi eccezione estrema va sottoposta alla più rigorosa protezione da ogni ombra di abuso e indifferenza (nessun “diritto”, per capirci). E che non siano oggetto di «giochi al ribasso», come ha detto chiaro sette mesi fa la presidenza Cei all’alba del dibattito. Perché ora si tratta di «non smarrire l’umanità». Parole rilanciate dai vescovi sardi. E che scolpiscono la vera posta in gioco. Per tutti.